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In principio furono la mobilità, la ristorazione e l’accomodation. Adesso la gig-economy apre ai lavori più disparati, dall’idraulico al babysitter. Piccole piattaforme di questo tipo esistono da tempo ma l’arrivo di UberWorks apre uno scenario di scala molto più ampia. Dopo il celebre servizio di trasporto automobilistico, la piattaforma per le consegne di pasti a domicilio (Uber Eats) e il noleggio di biciclette e scooter elettrici (Jump), l’azienda con sede a San Francisco lo scorso ottobre ha lanciato Uber Works, il servizio intende facilitare l’incontro di domanda e offerta nell’ambito dei lavoretti temporanei. La prima – e finora unica – città a sperimentare la piattaforma è Chicago, ma è già in corso un beta test a Los Angeles e la volontà dell’amministratore delegato Dara Khosrowshahi è di allargare ben presto la lista dei centri urbani coinvolti.
Come funziona UW
La finalità dell’applicazione, almeno per come è stata presentata dall’azienda, è facilitare la vita a chi è alla ricerca di un’occupazione breve o brevissima, snellendo il faticoso processo di ricerca e selezione. Dopo essersi registrati con un’identità verificata e aver inserito le proprie informazioni personali e il proprio curriculum, l’algoritmo alla base di Uber Works si occupa di incrociare le offerte di lavoro con le disponibilità degli iscritti. Uno dei punti di forza del nuovo modello dovrebbe essere la trasparenza, nel senso che prima di accettare un impiego si potranno conoscere esattamente la paga lorda, la struttura dei turni, la durata delle pause e l’eventuale necessità di colloqui preliminari o periodi di formazione e prova. Niente sorprese in corsa, insomma.
Le occupazioni più comuni sulla piattaforma sono quelle tipiche della cosiddetta gig-economy (l’economia dei lavoretti), ossia cassieri o inservienti nei negozi, baristi, addetti alle pulizie, governanti, fattorini e manodopera di livello base per attività commerciali o di altro genere.
L’altro obiettivo dichiarato di Uber è allargare l’attuale collo di bottiglia nel processo di incontro di domanda e offerta, che negli Stati Uniti (e non solo, come ben sappiamo noi italiani) è rappresentato dagli uffici di collocamento e dalle agenzie interinali. Come? Anzitutto, attraverso un uso più sapiente del digitale e approfittando della potenza degli algoritmi: soluzioni software di intelligenza artificiale che rappresentano il core business di tutte le varie divisioni aziendali della galassia Uber. Caratteristiche salienti di questo marketplace del lavoro sono il superamento delle rigidità burocratiche, la creazione di un profilo utente che possa essere caricato in piattaforma una volta per tutte e la predittività dei flussi, in modo da gestire in anticipo eventuali picchi di richieste. Uber però non gestisce l’intero iter: non a caso sono stati da poco siglati accordi con TalentBurst e TrueBlue, rinomate agenzie di collocamento di Chicago a cui sono delegate le parti più tradizionali del processo.
Per i lavoratori non è tutto oro
Come già è accaduto per il servizio di noleggio con conducente e per le consegne a domicilio, anche in questo caso sono state immediate le polemiche relative all’inquadramento e ai diritti delle persone che mettono a disposizione il proprio tempo. Se da un lato Works rappresenta un’opportunità interessante per chi è alla ricerca di un lavoretto temporaneo, e probabilmente nessuno ha in mente di ricavarne una professione stabile o una carriera soddisfacente, sull’altra faccia della medaglia ci sono le questioni di coperture assicurative, di diritti sindacali e – non da ultime – le implicazioni a livello di etica e rispetto umano.
Ai vantaggi dell’autonomia e della totale mancanza di vincoli contrattuali, infatti, si contrappongono l’assenza di tutele e di garanzie sul futuro, anche a breve termine. Secondo alcuni, come recentemente discusso da The Conversation e Quartz, il concetto stesso di autonomia sarebbe assai relativo, dal momento che il lavoratore si trova a dover soddisfare tanto le richieste del committente quanto quelle dei clienti, obbligato a rispettare gli orari imposti senza alcuna flessibilità nel corso della giornata, e ricevendo in cambio una paga minima.
E proprio in questo senso c’è chi lamenta che un sistema come Uber Works faccia implicitamente passare l’idea che i lavoratori della gig-economy siano una sorta di liberi professionisti, quando invece è palese il loro ruolo alle dipendenze (temporanee) dell’azienda che li retribuisce.
Il ruolo sociale di un gig-worker
Sul versante dei rapporti umani, secondo alcuni analisti la gestione del rapporto di lavoro tramite app farebbe scomparire una serie di relazioni necessarie tra capo e subalterno. Ad esempio, la valutazione della prestazione mediante un punteggio a stelline (solo di rado arricchito da un commento testuale) rende molto difficile per il lavoratore stesso comprendere che cosa sia andato bene e che cosa no, e impedisce la nascita di quel necessario rapporto di fiducia reciproca che si dovrebbe (idealmente) instaurare in una collaborazione professionale. Ciò si concretizza anche nel processo di assegnazione delle mansioni, poiché se la scelta viene lasciata in mano a un algoritmo viene meno quella parte di selezione umana tradizionalmente affidata ai responsabili delle risorse umane. Ovvero, la persona arruolata tramite app viene sminuita e considerata come pura e anonimizzata manovalanza, non meritevole di stringere un rapporto duraturo e fiduciario con l’azienda che lo impiega.
Un’ultima critica riguarda poi il continuo essere sotto scacco vissuto dal lavoratore, che proprio per via del meccanismo della recensione si trova costretto a sottostare alle richieste dell’impresa, dato che una valutazione negativa potrebbe precluderebbe non solo il riproporsi di quella attività ma anche di altre future opportunità.
Critiche, queste, che non riguardano certo la sola Uber Works, ma anche una serie di concorrenti già presenti sul mercato statunitense come JobToday, Bacon, Catapult, Limber, Gig, Rota, Snag e Syft. Il tema che si pone, anche a livello sociale, è quanto le nuove modalità di impiego possano incidere sulla salute – sia fisica sia psicologica – dei lavoratori, in un sistema in cui le parole chiave rischiano di essere isolamento, precarietà e assenza di sostegno economico ed emotivo.