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Lo sviluppo delle competenze trasversali, o soft skills, da parte dei collaboratori, sempre più strategico per lo sviluppo aziendale, per molte realtà è un obiettivo ancora lontano da raggiungere.
Lo rileva un’indagine realizzata per il Sole 24 Ore dall’associazione Mopi in collaborazione con Gidp, il cui l’obiettivo è capire quali siano i rapporti tra i direttori delle risorse umane, i formatori e gli studi legali che li assistono, nonché le principali sfide da affrontare nel loro lavoro. Oltre alla parte relativa ai rapporti fra Hr e studi legali, già sotto la lente in un articolo del Sole 24 Ore dello scorso 10 giugno, la ricerca – che ha coinvolto 104 manager di aziende di numerosi settori, anche con più di 500 dipendenti – contiene un’interessante appendice sulla formazione in azienda, sia interna, sia affidata a professionisti esterni. Il punto di partenza è quello del gap da colmare a livello di soft skills, di cui è stato riscontrato il bisogno nello imprese da parte di oltre il 94% dei responsabili delle risorse umane: una necessità che è stata rilevata direttamente per il 68% di loro oppure è emersa anche grazie al supporto di consulenti esterni in quasi il 29% dei casi.
Si tratta di una sfida importante, che l’area Hr affronta soprattutto utilizzando risorse interne: l’indagine fra i direttori del personale sottolinea, infatti, che solo il 10% delle aziende utilizza formatori esterni per oltre l’80% dei bisogni formativi, mentre il 46% appalta all’esterno non più del 40% del lavoro di formazione. Particolare significativo, delle aziende che coinvolgono nella formazione il maggior numero di collaboratori la metà è di piccole dimensioni o non ha la produzione al suo interno e solo il 25% è di grandissime dimensioni. «Il fatto che le imprese si rendano conto di avere bisogno di soft skills è già un grande punto di partenza – sottolinea uno degli autori dell’indagine, Simone Bandini Muti, docente alla Bocconi e al Politecnico – perché se nelle assunzioni si guarda ancora prima di tutto al curriculum vitae, dando prevalenza alle hard skills, poi però in azienda emerge il bisogno delle competenze trasversali, sempre più centrali anche per fare carriera. In questo contesto di riferimento, purtroppo, ancora oggi i ragazzi il più delle volte non hanno però idea di cosa sia una lettera di motivazione, in cui metti dentro chi sei facendo emergere le soft skills». Ma a quanto ammonta il costo medio a giornata di un formatore? Su questo punto l’indagine fornisce numeri piuttosto diversi: si sta entro i 500 euro per oltre il 17% delle aziende fino a superare i 2.500 euro nell’1,5% dei casi, con la fascia più gettonata (60% delle imprese) che si colloca fra i 500 e i 1.500 euro. «Su questo fronte c’è un enorme differenza tra Milano, dove le parcelle sono molto più elevate, e il resto d’Italia – spiega ancora Bandini Muti, formatore lui stesso -.
Un altro grande step è dato poi dall’esperienza: il fatto di essere un formatore senior (con oltre 10 anni d’esperienza), piuttosto che junior rileva in modo significativo sul piano dei costi». Costi, quelli per remunerare la formazione, che potrebbero essere sostenuti anche attingendo da fondi regionali, nazionali ed europei, di cui però le aziende sembrano avere scarsa conoscenza: non si spiega altrimenti il dato emerso dall’indagine secondo cui oltre il 50% delle imprese non li utilizza o se ne serve in minima parte. Interessante è notare anche come nella scelta del formatore contino pochissimo i social network, mentre pesa l’esperienza del settore e il curriculum per il 58% delle aziende e continua a essere rilevante il passaparola (47%). In prospettiva, peraltro, gli investimenti in formazione sono destinati ad aumentare: il 64% dei manager rileva, infatti, che le loro aziende hanno previsto di aumentare il budget nei prossimi 12 mesi e solo il 13% deve fare i conti con una riduzione. Per quanto concerne, ancora, l’oggetto dell’attività formativa, attingendo da un paniere che contemplava la possibilità di selezionare più risposte, secondo la ricerca le tematiche più richieste su cui viene fatta la formazione sono la leadership (63%), lo sviluppo personale (49%), il public speaking (46%) e le tecniche di vendita (46%), con una percentuale di dipendenti coinvolti che resta, tuttavia, relativa: meno del 40% in oltre il 35% delle aziende; un numero, quest’ultimo, su cui tuttavia incide la percentuale di “colletti bianchi”, principali destinatari della formazione, presente nelle imprese interessate. «L’alta percentuale riscontrata sul public speaking – evidenzia il ricercatore – la ritengo significativa perchè in realtà dovrebbe tendere verso lo zero. Questo tipo di formazione, infatti, dovrebbe essere erogato nel mondo della scuola e delle università, mentre il primo momento in cui in Italia ci si confronta a livello di comunicazione è quando si presenta la tesi di laurea.
Diversamente da quanto avviene soprattutto nei Paesi di cultura anglosassone, in cui già a livello di scuole elementari si viene preparati a parlare ai compagni durante l’ora di lezione». Gli esiti dell’attività formativa appaiono, infine, tutto sommato positivi: se solo il 7% degli intervistati ha dichiarato di avere colmato molto il gap formativo, il 77% si ritiene abbastanza soddisfatto, mentre il 15% ritiene che sia ancora lunga la strada da percorrere.